Ordini professionali: natura giuridica pubblicistica o privatistica?

Corte d’Appello, Salerno, sez. penale, sentenza 20/06/2017 n° 758

Nel giudizio in commento viene esaminata la questione relativa alla connotazione giuridica degli ordini professionali, con particolare attenzione alla possibilità di contestare o meno, ai dirigenti degli stessi, il reato previsto dall’art. 323 c.p.

La Corte d’Appello di Salerno, Sezione penale, ha adottato la tesi positiva, nella sentenza n. 758 del 20 giugno 2017.

Nella vicenda in esame, il Tribunale di Salerno, in composizione collegiale, aveva dichiarato gli imputati penalmente responsabili del reato ex art. 323 c.p., come da capo d’imputazione.

Nello specifico,  uno degli imputati, presidente del consiglio direttivo del Collegio dei Geometri, all’epoca dei fatti, aveva impiegato presso tale ente, a titolo volontario e non retribuito, la di lui figlia, dando successivamente incarico ad una società di lavoro interinale di somministrare forza lavoro al Collegio; tale società assunse la donna in virtù della pregressa esperienza acquisita, assegnandola proprio al Collegio dei geometri. L’assunzione fu poi perfezionata senza che la giovane svolgesse alcun periodo di prova.

Il Giudice di prime cure ha ritenuto sussistente il reato di abuso di ufficio rilevando, in primo luogo, che, al tempo, l’imputato C.R. rivestiva la qualifica di pubblico ufficiale, in quanto il Collegio  dei Geometri, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. 5 marzo 1986, n. 68, ha natura di ente pubblico non economico ed è pertanto soggetto alle disposizioni del d.lgs. 165/2001 in materia di reclutamento del personale. Inoltre, l’imputato aveva l’obbligo di astenersicome espressamente prescritto dall’art. 323 c.p. nel caso di conflitto d’interessi.

Avverso tale  sentenza è stato proposto appello.

Nell’esaminare il caso de quo, la Corte ha fatto proprie le argomentazioni della sentenza impugnata, fornendo le necessarie precisazioni in relazione agli specifici motivi di appello proposti dell’appellante. A tal riguardo, il Collegio ha fatto riferimento all’art. 323 c.p. che prevede l’incriminazione del duplice comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio il quale, intenzionalmente, violando disposizioni di legge o regolamento, ovvero omettendo di astenersi, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure procura ad altri un danno ingiusto. Dunque, affinchè si delinei la condotta  tipica, essa deve essere compiuta dal soggetto nello svolgimento delle sue funzioni o del suo servizio ed inoltre deve essere compiuta in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un congiunto prossimo o negli altri casi previsti. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, occorre che l’ingiusto vantaggio o l’ingiusto danno, siano procurati intenzionalmente.

Nella fattispecie in esame, per verificare l’esistenza dell’elemento materiale, occorre preliminarmente stabilire se il Collegio dei geometri possa essere qualificato come ente pubblico e se, in tal caso, l’imputato R.C., agendo nella qualità di presidente dello stesso, abbia assunto le funzioni di pubblico ufficiale. A tal riguardo, è possibile definire i Collegi professionali come centri di potere amministrativo ai quali lo Stato attribuisce la possibilità di perseguire, secondo determinazioni autonome ma non per questo esenti da controlli, obiettivi di interesse generale a cui riconosciuta particolare rilevanza. Orbene, il legislatore ha disciplinato una serie di funzioni pubblicistiche relative all’esercizio delle professioni, non ha però creato, per la cura dei relativi interessi, adeguate organizzazioni pubbliche, ricorrendo alle preesistenti organizzazioni professionali private, fondati sulla base associativa costituita dagli appartenenti a ciascuna delle professioni. Da qui deriva il carattere ambiguo degli Ordini o Collegi professionali, espresso nella loro definizione di enti pubblici associativi o, secondo altra definizione, di enti ausiliari dello Stato.

Dunque, se da un lato gli Ordini sono riconosciuti dal legislatore come veri e propri enti pubblici, in quanto idonei ad adottare atti incidenti sulla sfera giuridica altrui; dall’altro, essi continuano ad essere conformati come enti esponenziali di ciascuna delle categorie professionali interessate, e quindi come organizzazioni proprie di determinati appartenenti all’ordinamento giuridico generale.

Nel caso in oggetto, giova accertare se le discipline organizzative dettate dal legislatore con riferimento alle amministrazioni pubbliche siano applicabili tout court agli Ordini professionalio se il loro carattere di organizzazioni settoriali ed esponenziali di interessi collettivi, invece, è diretto a preservarne l’autonomia interna.

Il Collegio adìto, ha ritenuto necessario effettuare ad una valutazione caso per caso, facendo prevalere i profili privatistici ovvero quelli pubblicistici a seconda della ratio della normativa da applicare. In particolare, secondo la Corte d’Appello, nella disciplina del decreto legislativo n. 165 del 2001, devono rientrare anche i rapporti di lavoro alle dipendenze dei Collegi professionali, per cui il Collegio dei geometri era tenuto, al tempo dei fatti, come lo è attualmente, al rispetto delle regole previste, per il reclutamento del personale, dall’art. 35 del d.lgs. 165/2001.

Orbene, il Collegio dei Geometri va senz’altro ritenuto come ente pubblico in relazione alla disciplina generale del pubblico impiego (in tal senso, cfr. Cons. St., Consiglio di Stato, sez. VI, 15 dicembre 1999, n. 2088). Del resto, il bene giuridico protetto dal reato di abuso d’ufficio non è l’integrità delle finanze pubbliche, ma l’interesse pubblico al buon andamento, all’imparzialità e alla trasparenza della P.A., come cristallizzato dall’art. 97 Cost. (Sez. VI, 19 gennaio 2016, n. 5746).

Infine, sul punto, la Corte ha ritenuto che il R., abbia agito nell’esercizio delle funzioni di pubblico ufficiale.

In merito al requisito dell’ingiusto vantaggio patrimoniale, secondo il Collegio, l’art. 323 c.p. incrimina quelle “violazioni le quali, proprio perché strumentali alla deviazione dalla causa tipica presupposta dall’esercizio dei poteri, si siano risolte in una prevaricazione, in un favoritismo affaristico, o nello sfruttamento privato dell’ufficio, cioè in una peculiare situazione finale di effettiva alterazione degli scopi istituzionali.”

Nel caso in esame, la deroga alla regola generale dell’assunzione per mezzo di graduatorie stabilite secondo  i requisiti pubblicizzati in un bando pubblico non è stata giustificata in alcun modo, né poteva esserlo, trattandosi di un’operazione che, ha condotto all’assunzione della congiunta del Presidente, senza alcuna procedura di valutazione  della professionalità e dei requisiti stabiliti dalla legge, producendo un palese un vantaggio patrimoniale ingiusto.

Una volta verificata la sussistenza del presupposto materiale, è necessario accertare l’esistenza del dolo intenzionale, ovvero se l’imputato R.C. abbia adottato una condotta univocamente diretta ad un risultato incompatibile con il perseguimento dell’interesse pubblico. A tal riguardo, la Cassazione ha disposto che il dolo intenzionale del delitto di abuso d’ufficio non è escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario, per eliminare l’elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse sia lo scopo primario dell’agente (Sez. VI, n. 18895 del 2011, Rv. 250374). Dunque, il dolo intenzionale è escluso dalla finalità pubblica perseguita dall’agente, quando il soddisfacimento degli interessi pubblici sia prevalente su quelli privati, mentre qualora il fine pubblico è una mera occasione o un pretesto per occultare la commissione della condotta illecita (Sez.VI, n. 13735 del 2013, Rv. 254856).

Nel caso in esame, si rileva che la figlia dell’imputato svolgeva mansioni di mera segreteria e, quindi, alla portata di chiunque, per cui  non si può escludere che altri dipendenti, scelti mediante una selezione pubblica, potessero avere analoghe capacità lavorative. Inoltre, il fatto che la giovane avesse prestato servizio per quattro anni, a titolo gratuito, presso l’ente, dimostra che la stessa si aspettava di venire assunta, nonché che l’imputato intendeva assicurare alla figlia il conseguimento di un posto di lavoro pubblico approfittando del suo ruolo apicale in seno al Collegio, e la finalizzazione della condotta a detto obiettivo è assorbente rispetto alla consumazione del reato, anche per quanto attiene l’aspetto soggettivo.

Il Collegio ha concluso ritenendo congrua la pena inflitta in primo grado, riconoscendo inoltre, all’imputato, il beneficio della non menzione, ricorrendone i presupposti di legge.

(9 novembre 2017. Nota di Maria Elena Bagnato)

Fonte: altalex.com