Il medico è finito? Se non cambia qualcosa lo sarà presto

Il medico della post modernità sempre di più appare espropriato della sua professione: di un’attività intellettuale che un tempo era missione perchè sinolo dei tre saperi (teorici, pratici e poietici secondo la nota classificazione aristotelica) e ora è mansione e la sua prestazione, un tempo ragionamento clinico, si svilisce nel mondo della medicina consumistica, in merce e bene di consumo

In medicina il processo di iperspecializzazione delle discipline con la creazione di sub specialità all’interno delle stesse specialità, ha profondamente mutato il rapporto tra lavoro (l’opera del medico) e i “mezzi ” strumentali necessari per la sua realizzazione (formulazione diagnostica e trattamento del paziente). Fino agli anni ‘70 tali mezzi erano in “in sé” come parte costitutiva dell’essere medico e la capacità diagnostica e terapeutica veniva raggiunta attraverso un lungo percorso di apprendimento della semeiotica (dall’ispezione alla palpazione) e un training al letto del paziente sotto la guida di un maestro.

La capacità dei grandi clinici era quella di sapere osservare sintomi e segni della malattia ricercando attraverso le manovre classiche della semeiotica, allora le uniche possibili, la conferma del sospetto clinico. L’occhio clinico era la capacità di correlare segni clinici presenti nel paziente in carne e ossa ( anche se di lieve entità o appena percepibili ) con specifiche sindromi morbose.

L’intuito del maestro era il frutto di anni di osservazione a letto del malato e del riscontro autoptico, nei casi in cui non si riusciva a formulare una diagnosi di morte. Perchè, come diceva il fondatore della “clinica medica” Augusto Murri, “il segreto per riuscire nell’esercizio della medicina non sta tutto nell’acquisto di un gran sapere, nè nell’aver veduto un gran numero di malati. Queste sono due condizioni certamente utilissime, ma il più essenziale sta nel loro intermedio, ossia nella facoltà di applicare le nozioni acquisite a ogni caso singolo”.

La rivoluzione tecnologica dell’imaging
A partire dagli anni ’70 con l’introduzione della diagnostica per immagini (TAC, RMN PET) e degli esami strumentali per lo studio dei diversi apparati (ecocardiografia, angiografie etc ) l’occhio del medico si è progressivamente spostato dal corpo vivente del paziente alla sua rappresentazione digitalizzata e la diagnosi da atto clinico per eccellenza “logica esercitata sul pensiero”, secondo Murri, è diventata sempre più risultato di un processo di acquisizione di dati osservazionali e altri forniti da strumenti interpretati o validati dallo specialista dello specifico settore.

Le implicazioni insite in questa trasformazione del processo diagnostico-clinico sono molteplici e riguardano sia il procedimento euristico per la formulazione diagnostica sia il rapporto tra i due agenti: il medico e il paziente a cui come vedremo se ne è aggiunto un terzo.

Ovviamente, la grande clinica, fatta di intuito, osservazione ed esperienza a letto del malato continua a popolare i campi della medicina e a fare la differenza laddove la diagnosi è più difficile o i trattamenti più complicati. C’è ancora un grande spazio per il ragionamento clinico raffinato perché in clinica tutto è improvvisazione, caso per caso, e gli ammalati cosi diversi sempre, anche quando hanno la stessa malattia, sono poi così mobili nei loro sintomi e fatti obiettivi, che spesso ciò che di essi si dice alla sera non è più vero al mattino…Insomma la clinica descrive, diagnostica, prognostica e cura l’ “ammalato”, la patologia speciale descrive, diagnostica, prognostica, cura le «malattie» (Giacinto Viola, Grande Dizionario Enciclopedico UTET).

Non c’è tuttavia dubbio che in relazione al percorso diagnostico standardizzato, l’avvento della digitalizzazione delle immagini e delle altre tecnologie diagnostiche, ha determinato un cambiamento di processo non dissimile da quello indotto dalla rivoluzione industriale sul lavoro artigianale.

La rivoluzione nel campo delle tecnologie sanitarie e del bios, infatti, da un lato ha consentito il progressivo disvelamento dell’ultrasottile, la fenotipizzazione delle malattie e l’endotipizzazione dei meccanismi molecolari alla base dei fatti morbosi: dall’altro lato tuttavia, a causa dell’alto costo delle apparecchiature e della complessità tecnico-gestionale del loro funzionamento, ha segnato il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione (la strumentazione diagnostica), nelle mani di un soggetto terzo. Ovvero sia in quelle del datore di lavoro pubblico o privato. Nè più nè meno come un tempo i mezzi di produzione erano passati dall’artigiano rifinito al capitalista possessore delle macchine.

Un’analogia solo apparentemente bizzarra che diventa invece estremamente calzante se si osserva quanto sta avvenendo oggi, in relazione ai fenomeni di rescaling nel campo della diagnostica di laboratorio e radiologica.

Dall’artigiano della provetta al monopolio delle società
In questi settori, infatti, anche a seguito di numerose direttive regionali che hanno rivisto al rialzo i volumi di prestazioni che gli erogatori privati devono garantire per restare nel circuito degli accreditati (nel Lazio per es. il numero di analisi di laboratorio è fissato oggi in 200.000), le vecchie imprese artigianali o familiari che non raggiungevano tali volumi, hanno dovuto aggregarsi trasformandosi in semplici punti di prelievo. In alternativa (opzione sempre più praticata) hanno ceduto la proprietà a società estere che, rilevandole tali attività, hanno costituito veri e propri monopoli (come nel caso di una società svizzera che avrebbe fatto incetta di oltre 150 laboratori di analisi).

Lo stesso dicasi per quanto riguarda la diagnostica radiologica in cui sono presenti pochissimi imprenditori o società di capitali che operano indifferentemente tanto nel settore alto (le cliniche private di prestigio) che in quello, oggi prevalente, nel low cost (con prezzi simili a quelli dei tickets).

Il vecchio artigiano della provetta o del radiogramma (figura tipica della medicina liberale) è ora sempre di più un salariato a tutti gli effetti che spesso (in barba a qualsiasi valutazione in termini di qualità) lavora a prestazione e viene pagato a numero di referti, senza alcuna relazione con i clinici che prescrivono l’esame. Un regime di cottimo come quello dell’addetto al tornio o alla catena di montaggio remunerato a pezzo lavorato.

Alienazione del lavoro medico
Un tale processo di “alienazione” intesa come frammentazione del lavoro e separazione dal prodotto finito, non è tuttavia una esclusiva del lavoro privato. Al contrario è quanto è ormai dato osservare in quasi tutte le strutture sanitarie dove la riduzione degli organici e il rispetto ossessivo del feticcio della produttività fine a se stessa ha ridotto molti medici a validatori seriali di procedimenti diagnostici (nel caso del laboratorio) o a lettori solipsistici di immagini anonime (nel caso delle radiologie).

Poco importa ovviamente che il 25% delle radiografie e il 44% delle TAC venga considerato inutile o quel che peggio dannoso per i pazienti! Lo stesso dicasi dell’eccesso di indagini di laboratorio che inzeppano i programmi di screening, oggi parte integrante dei pacchetti assicurativi, e che di fatto sono totalmente inefficaci ai fini di una vera prevenzione.

Un tale processo di alienazione dalla vecchia medicina è tuttavia una realtà anche per la larghissima parte dei clinici che non hanno il privilegio di lavorare nell’eccellenza. Anche qui sempre più spesso i medici che operano nelle strutture ospedaliere sono alle prese con pazienti affetti da pluripatologie verso le quali sono impotenti perchè dovrebbero essere affrontate con misure pro attive e preventive in setting clinici differenti (verso cui di nessuna efficacia è la medicina clinica curativa ).

Non differente la condizione in cui versano i medici che operano nel territorio (specialisti ambulatoriali o medici di medicina generale) assoggettati a carichi burocratici crescenti (la medicina di carta) e sottoposti a tempari (una visita ogni 20 miniti) che impediscono di dedicare il tempo necessario all’esame del paziente e alla relazione.

Il medico della post modernità, dunque, sempre di più appare espropriato della sua professione: di un’attività intellettuale che un tempo era missione perchè sinolo dei tre saperi (teorici, pratici e poietici secondo la nota classificazione aristotelica) e ora è mansione e la sua prestazione, un tempo ragionamento clinico, si svilisce nel mondo della medicina consumistica, in merce e bene di consumo.

La crisi della medicina: un problema senza frontiere
Uscire dalla crisi della professione è ormai problema urgente e non solo limitato al nostro paese. La crisi è un problema che riguarda tutti i paesi a capitalismo avanzato dall’America al cuore della vecchia Europa.

Negli Usa, il problema riempie le pagine delle più importanti riviste americane di Medicina. Particolarmente significativo il contributo di Victor J. Dzau e colleghi in un articolo del giugno 2018 del NEJM dal titolo To Care Is Human — Collectively Confronting the Clinician-Burnout Crisis.

Nel loro paper apparso nella rubrica perpective gli autori denunciano la situazione americana dove più della metà dei medici riportano sintomi significativi di burnout – un tasso di più del doppio rispetto ai professionisti in altri campi – e dove è aumentato in modo allarmante il tasso di depressione e di suicidio che ha raggiunto ormai il picco di circa 400 casi l’anno.

La situazione del Regno Unito non è dissimile. Il vecchio glorioso NHS è ormai un cumulo di macerie tanto da avere spinto sabato 3 febbraio, infermieri, medici, sindacati, associazioni di cittadini, gente comune a riempire le strade di Londra per dire basta al malfunzionamento del NHS. Le parole d’ordine della manifestazione, simili a quanto si potrebbe udire nel nostro paese: finanziamenti, assunzione di personale, ambulanze, tempi certi per essere curati.

Lo stesso dicasi per le accuse al governo che fa orecchie da mercante nel negare l’evidenza degli ospedali sovraffollati, delle ambulanze che non arrivano e non rispondono alle chiamate, della gente che muore nei corridoi in attesa di una qualche risposta come ci racconta Grazia Labate. (QS del 4 febbraio).

Lo stesso dicasi per la Francia dove, nell’ultimo anno i medici, per la prima volta nella loro storia, hanno aderito a una manifestazione indetta dai sindacati degli infermieri per protestare contro la riforma del pubblico impiego targata Macron. Stessa accoglienza negativa ha avuto il piano di riforma dell’intero sistema sanitario in 5 punti presentato pochi giorni orsono dal Ministro della salute Agnès Buzyn. Un ulteriore tassello in una condizione di grave disagio che ha investito i sanitari francesi.

Il riscatto professionale
Ridare valore al lavoro medico non è il ritorno all’età dell’oro della dominanza medica. Sono stati gli stessi medici a lottare perchè quel modello relazionale univoco e paternalistico fosse superato. Abbiamo già rievocato il contributo di Franco Basaglia, Giulio Maccacaro e tanti altri a quel movimento di liberazione che ha portato alla chiusura dei manicomi e alla nascita della medicina del lavoro.

Nessuno, tuttavia, poteva anche lontanamente immaginare che la sanità si sarebbe trasformata in un mercato governato da monopolisti e che il ruolo professionale dei professionisti della salute avrebbe subito l’attuale deprezzamento. E’ da questa condizione di immiserimento culturale e professionale che i medici, insieme agli altri operatori della sanità devono uscire presentando il conto ai tanti che con il loro laissez-fair hanno fatto poco perchè questo non avvenisse

Deframmentare il lavoro medico
Le moderne tecnologie consentono a ogni professionista di muoversi all’interno di un ospedale virtuale. Nella HMO americana Kaiser Permanente, per esempio, il 52% delle visite annue di più di 100 milioni di pazienti sono ormai di tipo virtuale e questo è stato reso possibile perchè l’organizzazione ha investito il 25% del proprio budget di 3,8 miliardi di dollari in ICT.

Un altro sistema assicurativo il Providence–St. Joseph Health’s Express Care system già presente in 4 stati con oltre 30 cliniche consente ai propri pazienti di eseguire visite virtuali usando il loro telefono, tablet o computer. I pazienti possono prenotare le visite in qualsiasi struttura e se desiderano una visita faccia a faccia ma non hanno la possibilità di recarsi in clinica sarà un medico a recarsi al loro domicilio (Sean Duffy et al NEJM 378;2 2108).

Sempre più pazienti possono utilizzare app per gestire le loro condizioni o per meglio correlare i loro sintomi a determinate condizioni come nel caso dei pazienti con pollinosi che possono identificare l’allergene responsabile correlando sintomi e conta pollinica. E tali dati comunicarli online al proprio specialista di riferimento.

Con l’uso delle nuove tecnologie il medico può de-frammentare il proprio lavoro e ricollocarsi al centro del processo diagnostico terapeutico. Può raccogliere dati clinici del paziente da remoto e può accedere facilmente a consulenze online; può spedire foto di lesioni cutanee al proprio dermatologo di riferimento, chiedere tramite e mail al proprio consulente endoscopista se la richiesta di una colonscopia è appropriata o può discutere in video chiamata con lo specialista allergologo quali indagini prescrivere. Tutto questo richiede una nuova organizzazione del lavoro, basata su reti cliniche adeguatamente supportate da sistemi informatici dimensionate a livello di ASL o di regione e una nuova strutturazione del tempo di lavoro.

Le attività di consulenze rese tra professionisti devono essere non solo formalizzate ma riconosciute come tempo di lavoro effettivo ad alto valore aggiunto anche in termini di salario accessorio. Le Asl invece di elaborare sistemi di valutazione dei risultati o di incentivazioni sempre e soltanto sulla quantità di prestazioni dovrebbero concentrare la loro attenzione sulla quantità di relazioni che un professionista è capace di utilizzare ( avendone ovviamente a disposizione la piattaforma tecnologica di supporto).

Ridefinire gli standard quali quantitativi del personale
L’organizzazione di un sistema basato sulla rete delle relazioni tra professionisti presuppone il superamento della condizione attuale di gravissima carenza del personale. Sappiamo inoltre che nei prossimi 5 anni altri 45 mila medici lasceranno il posto di lavoro per raggiunti limiti di età mettendo ulteriormente in difficoltà un sistema già oggi stremato.

Sorprendente la proposta del neo eletto ai vertici della FNOMCeO, Pier Luigi Bartoletti che, sperando di realizzare un sogno a lungo accarezzato, ha proposto di portare il massimale per ogni MMG a 2.000 scelte. Così il tempo medio settimanale per ciascun paziente raggiungerebbe lo stratosferico valore di 1 minuto e 2 secondi (2000 diviso 40 ore settimanali).

Con questo tempo la visita si ridurrebbe a meno di una stretta di mano, ma questo evidentemente è solo un ingombro da non tenere in considerazione. I vertici della FNOMCEO non sono stati neanche lontanamente sfiorati dal dubbio che per superare l’emergenza si potrebbero portare tutti i guardisti a 38 ore settimanali dando loro la possibilità di aumentare il numero di scelte o di acquisirle ex novo. Questo dovrebbe proporre chi è stato eletto per tutelare la totalità dei medici e non certo di aumentare lo stipendio a chi già guadagna molto di più di chi svolge una pesante attività nei dipartimenti di emergenza dei grandi ospedali.

E’ ovvio che serve un piano straordinario di assunzioni e che il blocco delle specializzazioni va superato con adeguati finanziamenti (anche a carico diretto delle regioni come suggerito dall’Onorevole Gelli) e con una nuova organizzazione della formazione degli specializzandi. Una formazione che si deve aprire al SSN e deve riconoscere il valore formativo del SSN istituendo gli ospedali di insegnamento dove formare e diplomare insieme all’Università i giovani specializzandi.

Ridefinire i processi decisionali nelle strutture aziendali
Il processo di aziendalizzazione è fallito. L’adozione degli strumenti della gestione privatistica non ha migliorato nè il saldo economico delle aziende e nè la qualità del servizio reso. Le regioni tradizionalmente virtuose sono rimaste tali e lo stesso dicasi per quelle cosiddette canaglia che hanno aumentato i loro disavanzi fintanto che lo stato non le ha private della loro autonomia di spesa obbligandole a sottoscrivere i piani di rientro.
La realtà quotidiana della maggior parte delle aziende è che i vertici aziendali non tengono in nessun conto il contributo dei medici nella organizzazione dei servizi e nella definizione delle buone pratiche cliniche.

In nessuna struttura viene fatto quello che in Francia è prassi fin dagli anni ’90: la riunione mensile dei dirigenti medici con lo staff aziendale per definire le politiche di appropriatezza e di allocazione delle risorse. La struttura amministrativa- gestionale persegue degli obiettivi che vengono fissati dalla regione e che non hanno alcun riscontro nelle valutazioni di tipo clinico-assistenziale che restano di esclusiva competenza dei medici e degli altri sanitari.

Un sistema che in Kaiser Permanente è prassi consolidata essendo i medici delle varie specialità che ogni anno definiscono lo standard assistenziale da garantire ai propri pazienti e i protocolli diagnostico-terapeutici da implementare.

Nulla di questo avviene nelle nostre aziende dove il consiglio dei sanitari o il consiglio di dipartimento si occupano di questioni amministrativo-sanitario che nulla hanno a che vedere con l’appropriatezza clinica e l’ottimizzazione del servizio. Gli organismi citati peraltro sono privi di reale autonomia rispetto ai vertici aziendali causa l’asimmetria di potere esistente tra la direzione aziendale e i professionisti medici. Il ruolo dei professionisti deve invece ritornare centrale nella implementazione di un modello operativo basato sul lavoro in team e sulla interconnessione con tutti i punti della rete assistenziale.

Il riscatto delle professione passa anche attraverso una revisione dell’attuale modello organizzativo delle aziende sanitarie mostratosi totalmente inadeguato per un effettivo miglioramento del servizio.

La strategia a perdere di chi rappresenta i medici
La condizione di degrado in cui versa la categoria non è una fatalità o una avversità del fatto. Essa è il frutto di politiche sbagliate e di errori imperdonabili compiuti dai vertici sindacali ( autonomi e confederali) e dagli eletti nei vertici della professione.

La FNOMCEO si è fortemente rinnovata, ma le prime sortite dei nuovi vertici hanno già fatto rimpiangere la precedente amministrazione. Le prime dichiarazioni dimostrano in modo ancora più imbarazzante come la Federazione sia semplicemente il megafono per le richieste corporative dei sindacati autonomi dell’area delle convenzioni

Altrettanto inadeguata la strategia dei sindacati della dipendenza che hanno perso il loro tempo a protestare della mancata riconferma dell’On. Gelli invece di convocare in un incontro pubblico tutti gli aspiranti premier chiedendo loro di firmare erga omnes i loro impegni per un rilancio del SSN e della professione.

Nulla di questo è stato fatto eppure sarebbe stato interessante vedere Renzi, Berlusconi o Di Maio sottoscrivere invece degli improbabili tagli delle tasse misure meno ambiziose ma concretamente realizzabili per rilanciare un sistema ormai alla deriva.

Roberto Polillo

Fonte: quotidianosanita.it